Colombia, non vola la colomba

Dal voto del 2 ottobre emerge una società fortemente divisa e polarizzata

Un risultato a sorpresa quello del referendum colombiano dello scorso 2 ottobre; si votava per rispondere al seguente quesito: “Appoggia l'accordo finale (di pace, ndr) per terminare il conflitto e costruire una pace stabile e duratura?”. Un momento storico che poteva segnare la fine di un conflitto interno che dura da oltre cinquant'anni. L'accordo di pace era stato firmato il 27 settembre scorso dal governo colombiano, guidato da Juan Manuel Santos, e dalle Farc di Rodrigo “Timochenko” Londoño ed era il risultato di quattro anni di negoziati portati avanti a Cuba. Il referendum popolare era per accettare o rifiutare l’accordo. La campagna per il sì è stata ampia e capillare ed ha visto scendere in campo non solo politici, ma anche gente comune, artisti, sportivi. Per il no invece alcuni esponenti politici dell’estrema destra, tra cui l’ex presidente Alvaro Uribe.

Contro ogni analisi e previsione, per una manciata di voti ha vinto il no.

Come spesso accade nei referendum, colpisce come un tema così delicato venga deciso da una percentuale bassa di votanti. Il quorum per ritenerlo valido era stato fissato al 13%, una soglia estremamente bassa; alla fine a votare è andato comunque il 38% del popolo colombiano e il 50,23% dei votanti ha risposto "no".

Un fallimento pesante per la politica colombiana, che viene già riletto in chiave elettorale: tra un anno si terranno le elezioni presidenziali e l'attuale presidente gode di una bassissima popolarità. Ma oltre a questo, cosa ha giocato a favore del no? Gli analisti si sbizzarriscono. L'astensionismo è messo al primo posto. In Colombia si tende a partecipare poco al voto a livello nazionale e molto a livello locale. Poi c'è l'odio viscerale per le Farc; molti non hanno digerito il fatto che con la firma di questa pace i guerriglieri avrebbero potuto evitare il carcere a patto di confessare i crimini commessi. Inoltre alcune figure di spicco della guerriglia avrebbero potuto entrare in politica. Per le persone a favore del no, questi due ultimi aspetti erano centrali: accanto a voci a sostegno del "sì alla pace", si erano levate voci per il "sì a una pace giusta, che non è quella negoziata".

Al di là delle discussioni filosofiche su cosa sia una "pace giusta" (ne esiste una sbagliata?), quello che emerge è una società fortemente divisa e polarizzata. Colpisce vedere, a livello geografico, chi ha votato "sì": le provincie più colpite dalla violenza del conflitto – chi conosce la guerra, appena può cerca un modo per arrivare alla pace. Salta agli occhi il caso di Bojayá (sulla costa del Pacifico), una delle regioni più martoriate: nel maggio 2002 era stata il teatro di uno scontro tra guerriglieri e paramilitari nel quale avevano perso la vita 79 persone rifugiatesi in una chiesa. Qui il 96% della popolazione ha votato per la pace. Non sono stati gli unici: nei dipartimenti più colpiti dal conflitto (Cauca, Guaviare, Nariño, Caquetá, Antioquia, Vaupés, Putumayo, Meta y Chocó) il risultato è stato analogo.

Si apre ora uno scenario nuovo. Cosa succederà alla Colombia lo si vedrà in futuro. Per ora, sia Santos che Timochenko hanno dichiarato che continueranno a negoziare.

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