L’ultima cena al campo profughi

Una giornata a Tel Abbas, a 4 km dal confine siriano. Ventiquattr’ore di viaggio: in pullman fino a Beirut, il volo per Roma e l’ultimo scatto fino a Trento

Tel Abbas (Akkar, Libano), 27 febbraio – Sa di sale, quest’ultima cena con pane arabo, pollo e riso, condita di lacrime trattenute. C’è dignità, nei gesti lenti che portano il cibo alla bocca. E per fortuna che ci sono i bambini con la loro allegria contagiosa! Nella tenda di Rami, foderata di cartone come le altre del campo dei rifugiati siriani adagiato in una striscia di terra lungo la strada principale di questa piccola cittadina nel nord del Libano, a 4 chilometri appena dal confine siriano, è un via vai incessante. Vengono a salutare gli ospiti arrivati da Trento per accompagnarli nel lungo viaggio che li porterà in Italia, grazie al progetto dei corridoi umanitari attivato dalla Comunità di Sant’Egidio, dalla Tavola valdese e dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei), d’intesa con il governo italiano: il consigliere provinciale del Pd, Mattia Civico, che è qui per la terza volta; l’ostetrica Sara Manfredi, chiamata a vigilare sulla salute di due giovani future mamme che affronteranno così con più tranquillità il viaggio; e il cronista di Vita Trentina. A fare da traduttori ci pensano i volontari dei Corpi di pace dell’Operazione Colomba (felice intuizione dell’Associazione Papa Giovanni XXIII) Marco, Gennaro e Marta, che è originaria di Rovereto.

A chiedere la protezione dell'Operazione Colomba sono stati gli stessi profughi, spaventati dalle minacce che arrivavano dall'esterno. E' una presenza vigile e amica, che da tre anni condivide in tutto la vita dei rifugiati nei campi profughi informali sorti un po' ovunque nella regione di Akkar, nel nord del Libano. “Nell'estate 2014 – mi spiega Alberto Capannini, fondatore dell'Operazione Colomba al tempo della guerra nei Balcani, che tutti chiamano semplicemente “Kappa” – un'escalation di violenza tra gruppi jihadisti e militari libanesi ha portato a ritorsioni sia di civili che di militari nei confronti dei profughi siriani. Il campo di siriani adiacente a Tel Abbas è stato minacciato di incendio. Le persone del campo, impaurite, hanno chiesto la presenza protettiva dei volontari”.

La presenza internazionale, in collaborazione con l’Unhcr, l’Alto Commissariato ONU per i Rifugiati, facilita la convivenza tra profughi siriani e popolazione locale libanese, crea occasioni di dialogo e abbassa il rischio di attacchi e violenze. Il Libano, con una popolazione di quattro milioni e mezzo di persone, ospita un milione e mezzo di profughi: il 30 per cento della popolazione. Operazione Colomba ha piantato le proprie tende, presenza neutrale e nonviolenta, condividendo la vita quotidiana dei profughi, che in questo nonluogo – qual è il campo di Tel Abbas – dove il tempo è sospeso, si cerca di rendere il più possibile normale. Ben sapendo che non può essere normale questa condizione di sradicati, lontani da troppo tempo da una casa che non esiste più e dove non si potrà più tornare – la maggior parte sei siriani qui rifugiati proviene dalla città di Homs, dove oggi restano solo macerie e verso la quale si levano, dalla vicina base aerea russa, i bombardieri che vanno a colpire le postazioni degli oppositori al regime di Assad. Non oggi, però, perché proprio da oggi è in vigore la tregua voluta dagli Stati Uniti e dalla Russia. “I volontari dell’Operazione Colomba, anche trentini – spiega Mattia Civico – hanno costruito un patrimonio di relazioni, di amicizia. Ed è su questo che oggi possiamo costruire una risposta per dare un futuro a queste persone, immaginando per loro un percorso diverso. I Corpi civili di pace dell’Operazione Colomba ci dicono che è possibile vedere, oltre i numeri, le storie delle persone, delle famiglie, per riannodare destini spezzati dalla guerra”. Lasciamo la tenda di Rami per andare a trovare Badee’ah, che con la sua grande famiglia raggiungerà Trento. E’ a lei che si sono affidati i volontari dell’Operazione Colomba per convincere i suoi figli, esasperati e preoccupati per l’imminente scadenza del documento rilasciato dall’Unhcr e per l’impossibilità di rinnovarlo essendo bloccati al campo (se si allontanano troppo, il rischio di essere arrestati è alto), a non affidarsi ai trafficanti di uomini e a non cercare un futuro incerto sui barconi che tentano di attraversare l'Egeo. Si parla, si beve il mate, si fumano Gauloises (le sigarette dallo slogan “Liberté Toujours”, libertà sempre). E’ tardi e ce ne andiamo a letto.

28 febbraio – Ci siamo. E' il giorno della partenza. Alle sette di sera sono attesi i tre pullman che ci porteranno a Beirut. Un viaggio non privo di insidie. A sud, la città di Tripoli è in fermento. Ai primi di febbraio sono stati arrestati terroristi che fabbricavano cinture esplosive in un magazzino. La guerra in Siria ha un effetto destabilizzante sul Libano, da due anni senza un Presidente. L’intervento di Hezbollah, gruppo sciita libanese, in Siria e Yemen in chiave anti-sunnita ha provocato la reazione dei Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo, che hanno interrotto i rapporti con il fragile governo libanese. E da più parti il paese è visto come sull'orlo del baratro di una nuova guerra civile. Lungo tutto il giorno arrivano conoscenti e amici a salutare chi parte. Arrivano anche gli esponenti di un’organizzazione non governativa libanese. E si fa vedere il proprietario del terreno, un libanese di poche parole, che forse deve regolare qualche ultimo conto. C’è nell’aria un’atmosfera carica di tensione. Si alternano gioia e tristezza, mentre si cucina e consuma l’ultimo pasto al campo, si mette quello che si può in borsoni e valigie e si vende o si regala il resto ai vicini di tenda. I bambini giocano e “ripassano” le lezioni di italiano di Gennaro, detto “Gino”: “Come ti chiami?” – “Di dove sei?” – “Come stai?” (e qui scatta immediata la risposta: “E tu?”). Così scopro che il mio nome è “Abu John”, “il papà di Giovanni”, il figlio maschio maggiore. Prima che faccia buio, qualcuno sale sulla terrazza della casa che il padrone libanese si sta costruendo accanto al campo. E indugia con lo sguardo a Est, verso il confine siriano che è a così pochi chilometri. Addio.

Alle 7 di sera arriva il primo pullman, poi gli altri due. Noi ospiti ci facciamo piccoli piccoli, per non turbare l'intimità di questi ultimi momenti. C'è il tempo per un'ultima sigaretta, prima di salire sui mezzi.

L'attraversamento notturno di Tripoli fila liscio, indolore, così come non rallentano i tre posti di blocco che incontriamo lungo la strada fra Tripoli e Beirut. Molti sono vinti dal sonno. E il viaggio sembra più veloce di quello che è in realtà.

29 febbraio – E' mezzanotte quando una casamatta con la vigilanza armata ci indica che siamo vicini all'aeroporto internazionale Rafic Hariri. Qui la macchina organizzativa di Sant’Egidio, della Tavola valdese e degli evangelici dà il meglio di sé: giovani volontari e volontarie accolgono i siriani appena scendono dal pullman, aiutano a formare i gruppi a seconda delle destinazioni, guidano all’interno dell’aeroporto per il disbrigo delle pratiche necessarie; e così passano anche queste ultime ore in terra libanese. Chiamano al check-in e puntuale alle 4.25, sistemati tutti sul volo Alitalia AZ 827, la voce del pilota annuncia l’imminente decollo. A Roma, tre ore più tardi, l’atterraggio è in un mare di nubi. Alle 7.04 Mattia Civico twitta: “#corridoioumanitario atterrati in qs istante. Applauso!”. L’accoglienza scalda il cuore dei rifugiati: zainetti con acqua e dolci per i bimbi, album, matite per colorare, adesivi che i più piccoli cominciano ad appiccicarsi dappertutto: sulle mani, sul viso. Ci sono anche i volontari trentini dell’Operazione Colomba. Sono arrivati con il pullman che porterà a Trento le famiglie che saranno ospitate a Villa San Nicolò e viaggeranno con noi. La conferenza stampa con le autorità e l’assedio dei mass media chiamati a dare il giusto rilievo a questo primo, per molti versi storico progetto-pilota sperimentale di apertura di un canale umanitario che può salvare moltissime vite umane sono l’ultimo “ostacolo” prima dell’ultimo scatto verso la destinazione, Trento. “Questo primo corridoio umanitario nasce utilizzando le norme che già esistono”, è la battuta del vice ministro degli Esteri, Mario Giro, raccolta per radio Trentino inBlu. “Si poteva fare e questo governo l’ha fatto. Spesso ci frena la paura delle polemiche. Adesso ci imitino gli altri paesi europei”.

Il tempo per distribuire i sacchetti con il pranzo preparati da Aeroporti di Roma e si è nuovamente in marcia. A Villa San Nicolò, sulla collina ovest di Trento, nelle strutture messe a disposizione dall’Arcidiocesi, è tutto pronto per accogliere i 29 rifugiati siriani “trentini”. A loro sostegno – come previsto da un ordine del giorno approvato con maggioranza trasversale dal Consiglio provinciale di Trento il 18 dicembre 2015 – interverrà economicamente la Provincia garantendo lo stesso trattamento previsto per i profughi inseriti nel progetto di accoglienza dei richiedenti protezione internazionale. Sono le 7 e mezzo di sera quando il pullman, non senza qualche difficoltà, fa manovra in fondo alla stretta strada che sale verso Villa San Nicolò. I volontari della Fondazione Comunità Solidale, dell’Operazione Colomba e della Croce Rossa Italiana attendono. “Giovani uomini e donne – chiosa Mattia Civico – che non hanno ragionato in termini di numeri, ma di persone, che si sono chieste da dove venivano questi che bussano alla nostra porta e hanno deciso di andare a conoscere di persona le loro storie. Partendo dal desiderio di incontrarsi, di conoscersi, qualcosa si può fare. Questo corridoio umanitario lo dimostra”.

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