Le spine delle riforme

Preoccupa che non ci sia la forza di alzare il livello del dibattito, affrontando i veri nodi

Il cammino delle riforme procede, ma a strappi e su un sentiero irto di spine. Così accade spesso nella storia e non c’è da meravigliarsene più di tanto. Certo qualche rammarico potrebbe essere consentito, soprattutto perché si rischia di allontanare sempre più l’opinione pubblica da una qualche partecipazione alla vita politica: quando non si capisce più ciò di cui si parla la voglia di farsi coinvolgere diminuisce a precipizio.

Difficile capire i dibattiti attuali. Partiamo da quello sulla riforma elettorale. La minoranza del partito democratico continua a battere su due tasti: basta coi nominati e sì alle preferenze; no al premio di maggioranza da attribuire alla lista perché è meglio darlo ad una coalizione.

Chi da anni osserva la politica italiana non può fare a meno di notare che il dibattito è privo di logica. Prendiamo l’assunto secondo cui i candidati scelti dai partiti sono dei “nominati dall’alto”, mentre quelli determinati dalle preferenze sono scelti dai votanti. L’evidenza empirica ci ha spiegato più volte che i cittadini che si prendono la briga di mettere una preferenza sulla scheda sono una piccola minoranza (chi la stima del 15 chi massimo del 25% dei votanti). Siccome sappiamo benissimo che per raccogliere le preferenze bisogna avere reti di sostenitori, spendere in propaganda, promettere favori, si è sempre ritenuto che il metodo favorisse o le clientele “naturali” o quelle artificialmente costruite con mezzi non molto limpidi. Per questa ragione le preferenze furono abolite a furor di popolo.

Certo i vertici dei partiti non si sono mostrati molto virtuosi nel distribuire i posti “garantiti”, ma non è che i risultati che si ottenevano con le preferenze favorissero risultati molto “democratici”. E comunque, diciamolo, le liste di coloro che possono raccogliere le preferenze sarebbero sempre stilate dai partiti, sia pure con più spazio per il potere delle correnti (che non sarebbe un gran guadagno).

Peggio ancora la questione del premio alla coalizione. Non avessimo visto come sono finite le coalizioni regalateci dai precedenti sistemi elettorali, potremmo pensare che così si favorirebbe il pluralismo contro il potere di un solo vertice di partito. Anche qui la realtà ci ha mostrato coalizioni nelle mani di piccoli partitini che ricattavano i grandi, magari aiutando quelle componenti che nei grandi partiti non erano riuscite a scalare il potere.

Spiace vedere che accanto a politici che cercano la scena, qualche esponente di tradizioni un tempo nobili si adegui a queste scaramucce di retroguardia solo per l’irritazione di dover considerare esaurita la sua stagione politica.

Un commento non molto diverso merita l’altro dibattito surreale, quello sulla riforma della Rai. Meno caldo, perché il tema tocca meno gli interessi personali di gran parte della classe politica, ma altrettanto fondato sul nulla. Lamentarsi continuamente del fatto che comunque la si giri alla fine il potere di nomina rimane alla politica, significa non rendersi conto del fatto che non si saprebbe a chi altro affidarlo sin tanto che la Rai rimane una azienda a proprietà pubblica. Credere poi che il parlamento lottizzi meno del governo è anche qui una illusione che cozza contro la storia: anzi si può dire che la Rai colonizzata dai governi dc era paradossalmente meno sfacciatamente di parte di quella confusa prodotta dalla lottizzazione degli ultimi decenni.

Il problema in questo caso, come in tutta la nostra vicenda politica, non è “chi” decide, ma la serietà e il tasso di etica pubblica di questi decisori. Purtroppo al momento sono caratteristiche piuttosto limitate in una quota troppo grande della nostra classe politica.

Renzi ha ragione ad insistere che le riforme vanno fatte e non scandalizza che tenga poco conto delle opposizioni preconcette. Quel che preoccupa è che non ci sia la forza di alzare il livello del dibattito affrontando i veri nodi che una riforma deve prendere in carico se non vuole essere una riforma a metà. E’ su questo punto che il premier andrebbe tallonato ed è qui che la società civile dovrebbe dimostrare quella maturità che costringe la classe politica ad uscire dai propri dibattiti autistici.

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